I PASTORI
Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde ? come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua nat?a
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!
Ora lungh’esso il litoral cammina
la greggia. Senza mutamento ? l’aria.
il sole imbionda s? la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacqu?o, calpest?o, dolci romori.
Ah perch? non son io c? miei pastori?
LE TERME
Settembre, oggi veder vorrei l’azzurro
del tuo cielo riempiere la bocca
rotonda della maschera di pietra
in cima alla colonna che si sfalda
nei secoli, convolta dal rosaio
che si sfoglia nell’ora, entro quel chiostro
quadrato che di biondo travertino
chiarisce il cotto delle antiche Terme.
Forse d’Orfeo ragionerei con Erme
sul margine del fonte ove i delfini
reggon la tazza in su le code erette;
o forse udrei l’ammonimento grave
dei due neri superstiti cipressi
ai due lor verdi cipressetti alunni
che crescono ove caddero i maggiori
percossi dalla folgore di luglio.
O forse mi parrebbe, oltre il cespuglio
soave, udire l’?nsito del servo
alla stanga appaiato col giumento
circa la mola c?nica di lava;
e pi? d? nudi torsi, e pi? d? busti
e pi? d? cippi mi sarebbe cara
l’ombra delle farfalle su p? dolii
risarciti con piombo dal colono.
Settembre, l?, sul fianco del bel Trono
d’Afrodite, l’aul?tride dagli occhi
a mandorla e dal seno di cotogna
sta, sovrapposta l’una all’altra coscia,
adagiata sonando le due tibie
con i frammenti dell’esperte dita;
e il Re Pastore immoto nel basalte
figge all’Eternit? gli occhi corrosi.
Ronzano l’api ne’ silenziosi
orti dei bianchi monaci defunti;
e nelle celle ?bitano gli iddii,
l?cerano le Menadi la vittima,
Anassimandro medita, dal muro
sv?gliasi il carme dei fratelli Arvali.
“Enos Lases iuvate”. Un’ape or entra,
per la chioma di Iulia che l’illude.
Nell’?lveo d’un ricciolo si chiude.
LO STORMO E IL GREGGE
Settembre, teco io sia sul Loricino
che fece blandi gli ozii del pretore:
in sabbia quasi rosea fluisce
scabra di rughe e sparsa di negrore
come il palato del mio dolce veltro.
Sorvolano le rondini quel vetro
lieve cui godon rompere coi bianchi
petti: una piuma cade e corre al mare.
E di l? dalle verdi canne i monti
di Cori son cilestri come il mare.
Forza del Lazio quanto sei soave!
Obliate citt? dei re vetusti,
atrii del Citaredo imperiale,
un bel fanciullo vien con le sue capre
e regna i lidi, impube re latino!
Il suo gregge ? di numero divino,
nero e bianco a sembianza delle frotte
alate che sorvolano il bel rivo,
pari olocausto al Giorno ed alla Notte.
Quasi fiore l’esigua foce s’apre.
Equa ride alle rondini e alle capre.
LACUS IUTURNAE
Settembre, chiare fresche e dolci l’acque
ove il tuo delicato viso miri;
e dolce m’? nella memoria il mio
natale Aterno in letto d’erbe lente,
e l’Amaseno quando muor domato
presso l’Appia col fratel suo l’Uffente,
e la Cyane ascosa tra i pap?ri,
e la Vella s? cara alla vitalba.
E pien di deit? dai colli d’Alba
lo specchio di Diana ancor mi luce.
Ma un’altr’acqua al mio sogno ? pi? divina.
Quella m’attingi e ne riempi l’urna.
Sotto la roggia mole palatina
presso il Tempio di Castore e Polluce,
occhio di Roma ? il Fonte di Iuturna.
Deh mio misterioso amor lontano!
Alte sul F?ro nel meridiano
silenzio stan le tre colonne parie
come d’argento cui salsezza infoschi.
Gli elci neri sul colle imperiale
sembran ruine dei primevi boschi.
Di ferrigno basalte arde la Via
Sacra tra gli oleandri giovinetti
e i sepolcreti dei Latini prisci.
Si tace il Fonte ne’ suoi marmi lisci
come quando Tarpeia la Vestale
vi discendea con l’anfora d’argilla.
Tremola il capelvenere sul tufo
e sul mattone, l’acqua ? glauca, tinge
il suo letto lunense; una lucerta
su l’ara dei Di?scuri tranquilla
gode in grembo alla dea di lunga face.
Ombre delle farfalle in quella pace!
Poc’acqua accolta, santit? dell’Urbe!
Le custodi del Fuoco sempiterno
scendono alla marmorea piscina?
o i Tind?ridi rossi di latina
strage, per beverare i due cavalli?
Deh lauri nuovi! Presso il puteale
crescono, nel sacrario di Iuturna.
Li veglia la Speranza taciturna.
LA LOGGIA
Settembre, il tuo minor fratello Aprile
fioriva le vestigia di San Marco
a Capodistria, quando navigammo
il patrio mare cui Trieste addenta
c? i forti moli per tenace amore.
Capodistria, succiso adriaco fiore!
Io vidi nella loggia d’un palagio
nidi di balestrucci appesi a travi
fosche, tra mazzi penduli di sorbe.
Cinericcio era il tempo, umido e dolco.
Or laggi?, pel remaggio senza solco,
tu certo aduni i neribianchi stormi,
e quelli di Pirano e di Parenzo,
che si rincontreranno in alto mare
con l’altra compagnia che vien di Chioggia.
E son deserti i nidi nella loggia,
e dei mazzi di sorbe son rimase
forse le canne appese pel lor cappio.
S’ode nell’ombra quella parlatura
che ricorda Rialto e Cannaregio.
Una colomba tuba dal bel fregio.
LA MUTA
Settembre, ora nel pian di Lombardia
? gi? pronta la muta dei segugi,
d? bei segugi falbi e maculati
dall’orecchie biondette e molli come
foglie del fiore di magnolia passe.
La muta dei segugi a volpe e a damma
or gi? tracciando va per scope e sterpi.
Erta ogni coda in bianca punta splende.
Presso il gran ponte sta Sesto Calende.
Corre il Ticino tra selvette rare,
verso diga di roseo granito
corre, spumeggia su la china eguale,
come labile tela su telaio
c?lere intesta di nevosi fiori.
Chiudon le grandi conche antichi ingegni,
opere del divino Leonardo.
Il sorriso tu sei del pian lombardo,
o Ticino, il sorriso onde fu pieno
l’artefice che t’ebbe in signoria;
e il di? constretto alle sue chiuse donne.
Oh radure tra l’oro che rosseggia
dello sterpame, tiepide e soavi
come grembi di donne desiate,
si ‘che al calcar repugna il cavaliere!
Vanno i cani tra l’?riche leggiere
con alzate le code e i musi bassi,
davanti il capocaccia che gli allena
per mezz’ottobre ai lunghi inseguimenti.
S’ode chiaro squittire in qu? silenzii.
Il suon del corno chiama chi si sbanda
e chi s’attarda e trae la lingua ed ansa.
Gi? la virt? si mostra del pi? prode.
Il buon maestro dell’arte sua si gode:
talor gli ultimi aneliti esalare
sembra l’Estate aulenti sotto l’ugne
del palafren che nel galoppo falca.
E, fornito il lavoro, ei torna al passo
per la carraia ingombra di fascine:
con la sua muta va verso il canile,
va verso Oleggio ricca di filande.
Vapora il fiume le sterpose lande.
LE CARRUBE
Settembre, son mature le carrube.
Or tu pel caldo mare di Cilicia
conduci dalla riva cipriota
la s?ica a scafo tondo e a vele quadre.
Bonaccia, e nel saffiro non ? nube.
Germa con sue maggiori quattro vele,
garbo o schirazzo, legni levantini
carichi di baccelli dolci e bruni
conduci verso l’isola dei Sardi.
E vien teco un odor di tetro miele.
La siliqua, che ingrassa la muletta
dall’ambio lene e in carest?a disfama
la plebe dalla bianca dentatura,
lustra come i capelli tuoi castagni
mentre stai su la coffa alla vedetta.
Certo, d’olio di s?samo son unte
quelle tue ciocche in forma di corimbi.
Certo, ritrovi or tu nel gran dolciore
del Mar Cilicio l’obliato carme
che alla Cipride piacque in Amatunte.
Settembre, teco esser voremmo ovunque!
IL NOVILUNIO
Novilunio di settembre!
Nell’aria lontana
il viso della creatura
celeste che ha nome
Luna, trasparente come
la medusa marina,
come la brina nell’alba,
labile come
la neve su l’acqua,
la schiuma su la sabbia,
pallido come
il piacere
su l’origliere,
pallido s’inclina
e smuore e langue
con una collana
sotto il mento s? chiara
che l’oscura:
silenzioso viso esangue
della creatura
celeste che ha nome Luna,
cui sotto il mento s’incurva
una collana
s? chiara che l’offusca,
nell’aria lontana
ov’ebbe nome Diana
tra le ninfe eterne,
ov’ebbe nome Selene
dalle bianche braccia
quando amava quel pastore
giovinetto Endimione
che tra le bianche braccia
dormiva sempre.
Novilunio di settembre!
Sotto l’ambiguo lume,
tra il giorno senza fiamme
e la notte senza ombre,
il mare, pi? soave
del cielo nel suo volume
lento, pi? molle
della nube
lattea che la montagna
esprime dalle sue mamme
delicate,
il mare accompagna
la melodia
della terra, la melodia
che i flauti dei grilli
fan nei campi tranquilli
roca assiduamente,
la melodia
che le rane
fan nelle pantane
morte, nel fiume che stagna
tra i salci e le canne
lutulente,
la melodia
che fan tra i vinchi
che fan tra i giunchi
delle ripe rimote
uomini solinghi
tessendo le vermene
in canestre,
con s? lunghi
indugi su quelle parole
che ritornano sempre.
Novilunio di settembre!
Tal chiaritate
il giorno e la notte commisti
sul letto del mare
non lieti non tristi
effondono ancora,
che tu vedi ancora
nella sabbia le onde
del vento, le orme
dei fanciulli, le conche
vacue, le alghe
argentine,
gli ossi delle seppie,
le guaine
delle carrube,
e vedi nella siepe
rosseggiar le nude
bacche delle rose canine
e nel campo la pannocchia
dalla barba d’oro
lucere, che al plenilunio
su l’aia il coro
agreste monder? con canti,
e nella vigna
il grappolo d’oro
che gi? fu sonoro d’api,
e nel verziere il fico
che dall’ombelico stilla
il suo miele,
e su la soglia del tugurio
biancheggiar la conocchia
dell’antica madre che fila,
che fila sempre.
Novilunio di settembre,
dolce come il viso
della creatura
terrestre che ha nome
Ermione, tiepido come
le sue chiome,
umido come il sorriso
della sua bocca
umida ancora
della prima uva matura,
breve come la sua cintura
nel cielo verde
come la sua veste!
Ha tremato
nella sua veste
verde che odora
ad ogni passo
come un cespo ad ogni fiato,
ha tremato
al primo gelo notturno
ella che a mezzo il giorno
dorm? con la guancia
sul braccio curvo
e si svegli? con le tempie
madide, con imperlato
il labbro, nella calura,
vermiglia come un’aurora
aspersa di calda rugiada
e sorridente.
E io le dico: “O Ermione,
tu hai tremato.
Anche agosto, anche agosto
andato ? per sempre!
Guarda il cielo di settembre.
Nell’aria lontana
il viso della creatura
celeste che ha nome
Luna, con una collana
sotto il mento s? chiara
che l’oscura,
pallido s’inclina e muore…”
Ma dice Ermione,
non lieta non triste:
“T’inganni. Quella ch’? s? chiara
? la falce
dell’Estate, ? la falce
che l’Estate abbandona
morendo, ? la falce
che falci? le ariste
e il papapevo e il c?ano
quando fior?ano
per la mia corona
vincendo in lume il cielo e il sangue;
ed ? la faccia dell’Estate
quella che langue
nell’aria lontana, che muore
nella sua chiaritate
sopra le acque
tra il giorno senza fiamme
e la notte senza ombre,
dopo che tanto l’amammo,
dopo che tanto ci piacque;
e la sua canzone
di foglie di ali di aure di ombre
di aromi di silenzii e di acque
si tace per sempre;
e la melodia di settembre,
che fanno i flauti campestri
ed accompagna il mare
col suo lento ploro,
non s’ode lass? nell’aria
lontana ov’ella spira
solitaria
il suo spirto odorato
di alga di r?sina e di alloro;
e l’uomo che s’attarda
in tessere vermene
gi? fece del grano mannelle
ed or fa canestri
per l’uva, con un canto eguale,
e tutto ? obliato;
obliato anche agosto
sar? nell’odor del mosto,
nel murmure delle api d’oro;
per tutto sar? l’oblio,
per tutto sar? l’oblio;
e niuno pi? sapr?
quanto sien dolci
l’ombre dei voli
su le sabbie saline,
l’orme degli uccelli
nell’argilla dei fiumi,
se non io, se non io,
se non quella che andr?
di l? dai fiumi sereni,
di l? dalle verdi colline,
di l? dai monti cilestri,
se non quella che andr?
che andr? lungi per sempre,
e non con le tue rondini, o Settembre!”
(Gabriele D Annunzio)
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