Quasi era vespro. Atteso avea soverchio
alla posta del cervo, quatto quatto
fra le canne; e vinceami l’uggia. A un tratto
vidi l’uom che natava in mezzo al Serchio.
Un uomo egli era, e pur sentii la pelle
aggricciarmisi come a odor ferigno.
Di capegli e di barba era rossigno
come saggina, folte avea le ascelle;
ma p?l diverso da quel delle gote
sotto il ventre parea che gli cominciasse,
bestial pelo, e che le parti basse
fossero enormi, cosce gambe piote,
come di mostro, tanto era il volume
dell’acqua che movea il natatore
se ben tenesse ambe le braccia fuore
con tutto il busto eretto in su le spume.
Un uom era. A una frotta d’anitroccoli
sbigottita egli rise. Intesi il croscio.
Repente si gitt? su per lo scroscio
della ripa, salt? su quattro zoccoli!
Lo conobbi tremando a foglia a foglia.
Ben era il generato dalla Nube
acro e bimembre, uom fin quasi al pube,
stallone il resto dalla grossa coglia.
Il Centauro! Di manto sagginato
era, ma nella groppa rabicano
e nella coda, di due pi? balz?no,
l’equine schiene e le virili arcato.
Ritondo il capo avea, tutto di ricci
folto come la vite di racimoli;
e l’inclinava a mordicare i cimoli
dei ramicelli, i teneri viticci
con la gran bocca usa alla vettovaglia
sanguinolenta, a tritar gli ossi, a bere
d’un fiato il vin fumoso nel crat?re
ampio, sopra le mense di Tessaglia.
Levava il braccio umano, dal bicipite
guizzante, a c?rre il ramicel d’un pioppo.
Repente trasalt?, di gran galoppo
spar? per mezzo agli arbori precipite.
Il cor m’urtava il petto, in ogni nervo
io tremando. Ma, nella mia lat?bra
umida verde, l’anima erami erba
d’antiche forze. E udii bramire il cervo!
L’udii bramir di furia e di dolore
come s’ei fosse lacero da zanne
leonine. Balzai di tra le canne,
vincendo a un tratto il corporale orrore,
agile divenuto come un veltro
p? gineprai, per gli sterpeti rossi,
con silenzio veloce, quasi fossi
in sogno, quasi avessi i pi? di feltro.
O Derbe, la potenza che desidero
? nei metalli che il gran fuoco ha vinto.
Eternato nel bronzo di Corinto
ti dar? quel che i lucidi occhi videro?
Il Centauro afferrato avea pei palchi
delle corna il gran cervo nella zuffa,
come l’uom p? capei di retro acciuffa
il nemico e lo trae, finch? lo calchi
a terra per dirompergli la schiena
e la cervice sotto il suo tallone,
o come nella foia lo stallone
la sua giumenta assal per farla piena.
Erto alla presa della cornea chioma,
con le due zampe attanagliava il dorso
cervino, superandolo del torso,
premendolo con tutta la sua soma.
Furente il cervo si divincolava
sotto, gli occhi riverso, il bruno collo
gonfio d’ira e di mugghio, in ogni crollo
crudo spargendo al suol fiocchi di bava.
Era del pi? vetusto sangue regio,
di quelli che ammansiva il suon del sufolo,
vasto e robusto il corpo come bufolo,
di v?nti punte in ogni stanga egregio.
Quanti rivali, oh lune di Settembre,
cacciati avea d? freschi suoi ricoveri
e infissi nella scorza delle roveri,
pria d’abbattersi al Tassalo bimembre!
Si scroll?, si squass?, si svincol?.
E le muglia sonavan d’ogni intorno.
In pugno al mostro un ramo del suo corno
lasciando, corse un tratto; e si volt?.
Si volt? per combattere, le vampe
delle froge soffiando e le vendette.
Il Tassalo gitt? la scheggia; e stette
guardingo, fermo su le quattro zampe.
Un fil di sangue gli colava gi?
pel viril petto, gi? per il pelame
cavallino il sudore. Come rame
gli brillava la groppa or meno or pi?
al sole obliquo che fer?a lontano
p? tronchi, variato dalle frondi.
S’era fatto silenzio nei profondi
boschi. Il soffio s’udia ferino e umano.
Gli aghi dei pini ardere come bragia
parean sul campo del combattimento.
E l’aspro lezzo bestial nel vento
si mesceva all’odore della ragia.
Pontata a terra la sua forza avversa,
il cervo, come fa nel cozzo il tauro,
bass? l’arme. La coda del Centauro
tre volte batt? l’aria come fersa.
Una rapidit? fulva e ramosa
si scagli? con un br?mito di morte.
O Derbe, ancor ne freme per la sorte
del petto umano l’anima ansiosa.
Credetti udire il gemito dell’uomo
su l’impennarsi del caval selvaggio.
Ma il Tessalo con inuman coraggio
il cervo avea pur quella volta d?mo!
Preso l’avea di fronte, alle radici
delle corna, e gli avea riverso il muso.
Entrambi inalberati, l’un confuso
con l’altro in un viluppo, i due nemici,
tra luci ed ombre, sotto il muto cielo
saettato da sprazzi porporini,
lottavano; e su i due corpi ferini,
se le zampe le punte il fitto pelo
il crino irsuto il prepotente sesso,
io vedea con angoscia il capo alzarsi
di mia specie, agitare i ricci sparsi
quel vento d’ira sul mio capo istesso.
E, gonfio il cor fraterno, d’un antico
rimorso, tesi l’arco dell’agguato.
Ma l’uom c? pugni avea divaricato
e divelto le corna del nemico.
Udii lo schianto strudulo dell’osso
infranto, aperto sino alla mascella.
Fumide gi? dal cranio le cervella
sgorgarono commiste al sangue rosso.
L’erto corpo piomb? nel gran riposo
son urto sordo; sanguin? silente;
senza palpito stette; del cocente
flutto bagn? l’arsiccio suol pinoso.
Rise il Centauro come a quella frotta
lieve natante gi? pel verde Serchio.
Poi lev?, grande nel silvano cerchio,
il duplice trofeo della sua lotta.
Fiut? il vento. Ma prima di partirsi
colse tre rami carichi di pine;
e due n’avvolse attorno alle cervine
corna, e s? n’ebbe due notturni tirsi.
Del terzo incurvo fece un serto sacro
e se ne inghirland? le tempie umane
ove le vene, enfiate dall’immane
sforzo, ancor cupe ardeangli di sangue acro.
Precinto, armato dei due tirsi foschi,
sollev? la gran bocca a respirare
verso il Cielo. S’udia remoto il Mare
seguir col rombo il murmure dei boschi.
Sola una Nube era nell’alte zone
dell’Etere qual dea scinta che dorma.
Venerava il Nubigena la forma
cui fecond? l’audacia d’Issone.
Bellissimo m’apparve. In ogni muscolo
gli fremeva una vita inimitabile.
repente s’impenn?. Sparve Ombra labile
verso il Mito nell’ombre del crepuscolo.
(Gabriele D Annunzio)
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