I.
Mastro Spaghi era il boia–della citta’ d’Urbino.
Contava cinquant’anni;–era smilzo e piccino;
Era calvo; il suo cranio,–da lontano, pareva
Una palla di vetro.–Sul petto gli cadeva
Una candida barba.–Avea gli occhi profondi,
L’orbite cavernose,–i pomelli rotondi
E violetti, le labbra–grosse e larghe.
Campava
Tirando il collo agli altri.
* * * * *
–La forca prosperava
Nell’Evo Medio!
Oh! Quelli–eran tempi beati!
Ne’ i maggiori colpevoli–erano gli appiccati!
I furbi ed i potenti–facevano man bassa,
Come chi taglia spiche,–sui capi della massa.
Le tanaglie e l’eculeo,–le scuri ed i capestri
Fiorivan dappertutto.
–Percio’ v’eran maestri
Nell’arte del carnefice!
–A Roma avea gran nome
Un boia, che sapeva–dal calcagno alle chiome
Tanagliare una vittima,–senza farla spirare.
La Santa Inquisizione–avea fatto educare
Molti allievi alla scuola–di cotanto maestro.
In quanto a mastro Spaghi–s’era dato al capestro.
* * * * *
Perche’ vi spaventate,–o lettori cortesi,
S’io parlo di carnefici?
–Il nome lor lo appresi
Nella storia dei popoli,–in cui tengon gran parte,
Il dire mastro Spaghi–o il dire Bonaparte
Per me suona lo stesso.–Ammazzare al dettaglio
O in partita, gli e’ sempre–ammazzare.
Il barbaglio
Della gloria e del genio–pel filosofo e’ nulla!
Che’, sfrondati gli allori,–v’e’ la campagna brulla;
V’e’ la campagna brulla,–tutta a macchie di sangue;
Ove il forte sogghigna;–ove il debole langue;
Ove stanno i carnefici–e le vittime.
Evvia!
Perche’ mai vi spaventa–questa novella mia?
Converrebbe abolire–la storia ed i cannoni
Per non parlar di boia!
–Abolirli?… Illusioni
D’anime semplicette!
–Togliam le guerre e il boia,
E impossibile e’ il dramma,–e morirem di noia!
L’umanita’ e’ un malato–che di salassi ha d’uopo!
Ma finiran le guerre–e i carnefici!…
E dopo?
Che faranno i mortali?–Quali saranno i temi
Degli umani discorsi–degli umani poemi?
Saran la fede immensa;–l’amore universale;
I viaggi nell’aria,–e l’assenza del male;
Del male, che pei posteri–sara’ l’egual chimera
Di quel che e’ il ben per noi!
–E s’anco fosse vera
Questa ideal famiglia–degli umani (fra mille
Miliardi di secoli)–figgiamo le pupille
Ancor piu’ innanzi…
Il cerebro–Mormora ancora: “E poi?…”
Siam daccapo alla noia!
II.
–Fra tutti i pari suoi
Mastro Spaghi emergeva–nell’arte del capestro.
La gran pratica e’ vero–l’avea reso il piu’ destro
In tal ramo di scienza;–ma il suo merito c’era.
Fabbricava lacciuoli–in siffatta maniera
Che gli altri d’imitarlo–avean tentato invano!
La seta piu’ ribelle–di mastro Spaghi in mano
Si mutava in un filo–cosi’ forte e sottile,
Qual non l’avria mutato–la mano piu’ gentile
D’una donna ai ricami–espertissima.
* * * * *
Quando
Saliva sopra il palco–era proprio ammirando!
Dall’alto della forca–con un braccio potente,
Al segnale prefisso,–ei ghermiva il paziente;
Gli chiudeva la strozza–col famoso lacciuolo;
Poi, lasciata la vittima,–ratto balzava al suolo
E, con ambe le mani–afferrati i ginocchi,
Dava uno strappo…
Il misero–schizzava in fuori gli occhi
Tremava in tutto il corpo;–contorceva la faccia;
Allungava la lingua;–dibatteva le braccia;…
Ma era affar d’un istante!…
–E il popolo plaudiva
A lui che cosi’ presto–d’una persona viva
Sapea fare un cadavere!
* * * * *
Il popol gli era grato,
Perche’ soltanto il popolo–era allora appiccato.
I nobili morivano–di scure, e i popolani
Dicean: “Se mi facessero–appiccare domani
“Per man di mastro Spaghi–preferirei morire.
“Mastro Spaghi ama il popolo,–che’ non lo fa soffrire!”
III.
In vent’anni la fama–del nostro personaggio
Nelle citta’ d’Italia–avea fatto viaggio,
Raccontando la storia–di mille impiccamenti,
Miracoli dell’arte,–alle estatiche genti;
Tantoche’ mastro Spaghi,–il carnefice artista,
Era chiamato ovunque,–al par d’un concertista
Nei di’ presenti; ed egli–era sempre in cammino.
Oggi appiccava un ladro–nella citta’ d’Urbino;
L’indomani a Piacenza–giungeva di gran fretta
Per un villan, che avea–tentato far vendetta
Contro il Duca, perche’–questi gli avea (badate
Che inezia!) la sorella–e la sposa violate;
Il di’ dopo correva–a Firenze, chiamato
Per un giovane ardente,–che aveva cospirato
(Diceva la sentenza),–contro le leggi.
Insomma,
Mastro Spaghi pareva–una palla di gomma
Che balza, ed agli astanti–sembra dir: “Dove vado?”
IV.
Adesso lo troviamo–a Sant’Angelo in Vado,
Grossa borgata allora,–posta tra l’Appennmo
Ed i repubblicani–colli di San Marino.
A Sant’Angelo in Vado–non c’e’ che una prigione.
Nel mille e due (secondo–la vecchia tradizione)
V’abitavano i frati;–era un piccol convento;
Non divenne prigione–che nel mille e trecento.
* * * * *
Mastro Spaghi sedeva–in un umida stanza,
I cui muri, giallognoli–e a macchie, avean sembianza
Di facce d’appiccati.
–Era una notte estiva.
Sui campi la finestra–della stanza s’apriva.
Di fronte alla finestra–c’era una porta, quella
D’un carcere, che un tempo–era stato una cella,
La’ stava il condannato–a morire domani
Sulla forca.
Il carnefice–torceva nelle mani
Un superbo lacciuolo.–Splendeva alla sua destra,
Su un tavolo, una lampada.
–La vicina finestra
Tormentava il lucignolo–con buffi violenti,
Di profumi campestri–soavemente olenti.
Mastro Spaghi annasava–le odorose zaffate
Come un fanciul che sogna–le libere giornate
Nella scuola rinchiuso,–e il cui sguardo si perde
Alle cime dei pioppi–che si pingon di verde,
E al cielo azzurro, mentre–il professor di greco
Gli spiega la grammatica.
–Non la piu’ debol eco
Il silenzio turbava.
–S’erano i borghigiani
Coricati assai presto,–per poter l’indomani
Svegliarsi di buon’ora,–e gustar per intero
La festa della forca.
* * * * *
–Dormiva il prigioniero?
Io l’ignoro.
Chi veglia–e’ mastro Spaghi.
E questi
Faceva a bassa voce–dei monologhi mesti:
V.
“Questo e’ quel dei dugento–che in vent’anni suonati
“Spacciero’ sulla forca.–I primi che ho spacciati
“Mi costarono lagrime–di compassione! Io penso
“Con vergogna a quei tempi!-Non avevo buon senso!
“Cos’e’ strozzare un uomo?–Mandarlo all’altro mondo!
“E questo (almen mi pare)–e’ un beneficio, in fondo!
“Forse, che in questo qui–si sta meglio? Che bazza!
“Chi non vi nasce ricco,–o di nobile razza,
“O vigliacco del tutto,–o forte, o scaltro, od empio,
“Ci viene per soffrire,–o per fare, ad esempio
“Di me, la bella parte–di carnefice!”
* * * * *
Un grillo
Lungi nella campagna,–turbo’ il sonno tranquillo
Alle cicale, sopra–le piante addormentate,
Con note cosi’ allegre–che parevan risate.
* * * * *
“Oh!… Le note dei grilli,–umili creature,
“Piccioletti filosofi–desti nell’ore oscure,
“Come son liete!” disse–il boia sospirando.
“Essi vivono poco;–e col profumo blando
“Delle erbette si innebriano;–son vestiti di nero
“Per darsi fra gli insetti–un tal piglio severo,
“Ma in cuor ridon di tutto!–Dormono la giornata,
“Poi di notte nei campi–corrono all’impazzata!…
“E dir che, giovinetto,–io n’ho ammazzate tante
“Di queste bestioline!…
–Allora ero l’amante
“Di Rita, la piu’ bella–forosetta che Iddio
“Ai campi regalasse!…–Almeno, a parer mio!
“Era bionda; abitava–qui presso, a poche miglia,
“In una casettina–tra i monti. La giunghiglia
“Ne baciava i mattoni–profumandola tutta.
“Una quercia, simile–ad una vecchia brutta
“Che s’e’ presa d’amore–per un bel giovinetto,
“Abbracciar del tugurio–parea volesse il tetto;
“Un tetto di lavagna–nera, lucente, lina,
“Su cui ridean gli steli–d’una rosa canina.
“Mi parea che si amassero–quel tetto e quella rosa!
“Anzi il tetto, agli abbracci–di Madonna Ghiandosa
“Quasi per isfuggire–parea farsi piu’ basso!
“Chi conosce i misteri–d’una pianta o d’un sasso?
“Noi ci viviamo in mezzo–cogliam le frutta e i fiori,
“Caviam fuoco dal sasso…–ed ecco tutto!”
VI.
Fuori,
Nell’aperta campagna,–il grillo allegramente
Trillo’ ancor. Mastro Spaghi–sospiro’ nuovamente.
* * * * *
“Poveri grilli! Povere–bestiole liete! Quante
“N’ho ammazzate!… Di Rita–ero allora l’amante!
“La notte, quando tutti–dormivano, soletto
“Io m’aggiravo intorno–alla quercia ed al tetto,
“Spiando la finestra–dove Rita dormiva.
“Talora ella l’apriva,–ma quando non l’apriva
“Che fare in mezzo ai monti–aspettandola?–Un poco
“Sedea sull’erba e il guardo–alzavo al cielo. Il fioco
“Lume degli astri piovere–sentia nelle pupille!
“Oh! Quanti dolci fascini–han le notti tranquille!
“Poi dagli steli, madidi–di rugiada, sul volto
“Mi balzava un insetto.–Io ghermivo lo stolto…
“Era un grillo; io grattavo–il suo ventre, per fare
“Che il povero piccino–avesse a strimpellare
“Qualche rullo di note–che svegliassero Rita…
“Ma la bestiola in mano–mi moriva sfinita!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
“Oh!… Sta a veder ch’io piango–perche’ ho ucciso dei grilli!
“Per Dio! Strozzai tanti uomini–ed ho i sonni tranquilli!”
VII.
La lampada schizzava–bagliori incerti e vaghi
Sovra il meditabondo–cranio di mastro Spaghi,
Il lacciuol, colle mani–inerti, sui ginocchi
Del boia era caduto.–
Ei tenea fisi gli occhi
Sul laccio e sulle mani…
–Ma il suo pensier dovea
Essere ben lontano.
* * * * *
–Il vegliardo dicea
A fior di labbra:
“Rita!…–Vent’anni son trascorsi!
“Da allora n’ho provati–di angosce e di rimorsi!
“Sono stato un vigliacco!–Quando il Duca d’Urbino,
“Dopo l’_jus primae noctis_,–sorridendo, il mattino
“A me t’ha rimandata,–io dovevo tacere,
“O ucciderlo… od uccidermi!–Quando il tristo messere
“Io di spacciar tentai–per vendicarmi, invano
“Io raccolsi il coraggio–in codesta mia mano!
“Questi privilegiati–che portano un gran nome
“Hanno un certo prestigio–che fa rizzar le chiome
“Ai piu’ arditi; hanno un fascino–che noi, povera gente,
“Siam dannati a subire;–hanno un piglio insolente
“Che agghiaccia!… Superiori–a noi li fece Iddio!
“Sospeso sul suo petto–rimase il braccio mio,
“E la mano ribelle–non mi volle ubbidire!”
* * * * *
Una nottola venne–nella stanza a squittire
Attirata dal lume;–fece due giri in tondo
Nelle pareti urtando;–poi nel buio profondo,
Fuori della finestra,–torno’, battendo l’ali,
Spaventata d’avere–osato tanto.
VIII
Eguali
Alle gocce che il tufo–nell’umide caverne,
Lagrime solitarie,–lentamente secerne,
Poche gocciole fredde–imperlavan la testa
Del boia.
* * * * *
Egli diceva:
“–Fu una notte funesta!
“So che mi son svegliato–con pesanti catene
“Ai polsi e alle caviglie.–Me ne ricordo bene!
“Non un raggio di luce!–Un fetore di morte
“Mi saliva alle nari.–Le catene eran corte.
“Mi addormentai di nuovo.–E d’essere un mastino
“Sognai.–
Fui risvegliato–sul fare del mattino
“Da un uomo lungo e pallido.–
Io gli chiesi chi fosse.
“Ei non rispose, colto–da un accesso di tosse;
“Il fetor della carcere–gli grattava la gola.
“Fui condotto all’aperto.–
Un frate colla stola
“Negra mi passo’ accanto.
Lo seguivan dei ceffi
“Da ribaldi, che feano–orribili sberleffi
“A un meschin che legato–ne veniva con loro.
“_Alla forca!… Alla forca!_”–gli gridavano in coro.
“Egli batteva i denti,–era tutto tremante;
“E, non potendo piangere,–contorceva il sembiante.
“Allora l’uomo pallido,–che mi stava vicino,
“Mi tocco’ sulla spalla,–e additando il meschino,
“Miagulo’:–
“_Il Serenissimo–Luca ti manda a dire
“Se ti piace di vivere,–o ti piace morire.
“Il carnefice e’ vecchio.–Se ti garba il mestiere
“Comincia a strozzar questo.–Verra’ il Duca a vedere.
“Se il mestier non ti garba,–oppur non ci sei nato,
“Invece d’appiccare–sarai tu l’appiccato.
“Il Duca e’ giusto e buono;–a tanta sua clemenza
“Mostrerai collo zelo–la tua riconoscenza.
“Rispondi? Che vuoi essere:–Od appiccato, o boia?_
“–Il secondo! Il secondo!”–Io risposi con gioia!
IX.
Egli stringea le labbra–e aveva chiuso gli occhi,
Che’ il duolo ama le tenebre.
Le mani sui ginocchi
Tremavano, ed il mento–sul petto si appoggiava.
* * * * *
“Me due volte vigliacco!”–mastro Spaghi pensava.
“Potevo una sol volta.–esserlo!… Avrei dovuto
“Tenermi la mia sposa–e scordar l’accaduto!
“L’oltraggio era comune–a mille! Sarei stato
“Felice! Forse un figlio–Iddio m’avrebbe dato
“O una figliola, bella–come sua madre!
Oh! Rita.,.
“Dove sei?
Mi narrarono–che te ne sei fuggita
“In paese lontano,–quando ti venne detto
“Ch’io facevo il carnefice,–e che m’hai maledetto!
“Un pastore stamane–m’asseriva che al seno,
“Partendo, ella teneva–sospeso il frutto osceno
“Di quella notte orrenda…–una bimba dormente!
“Da allora in poi nessuno–la rivide…
Clemente
“Iddio, se rivedere–un di’ potessi almeno
“Questa bimba, che Rita–tenea sospesa al seno!”
X.
E alzo’ gli occhi.
Miracolo!–Dinanzi a mastro Spaghi
Una forma di donna,–ai raggi fiochi e vaghi
Della lampada, spicca,–sul buio della stanza.
E’ una fanciulla pallida–e bella. Ella s’avanza,
Tenendo sulle labbra–l’indice, a passi lievi.
Le sue pupille intorno–schizzano lampi brevi
E inquieti, e, scorgendo–cola’ soltanto il boia,
Si volgono all’usciuolo–scintillanti di gioia.
Ella s’appressa al tavolo–e, tremando, vi getta
Una manata d’oro.
–Poi si ferma ed aspetta.
* * * * *
“Chi sei?” chiede il carnefice,
–Ella cade ai ginocchi
Di mastro Spaghi e dice–piangendo e alzando gli occhi:
–“Tutto quest’oro e’ tuo;–questo e’ quanto possiedo…
Guarda!”
L’altro rispose–balbettando: “Lo vedo!”
Ma sulla giovinetta–il suo sguardo cadea,
E la sua mano secca–a un altr’oro correa!
All’oro dei capelli,–che le scendean qual velo
Sulla fronte; e che gli occhi,–d’un azzurro di cielo,
Coprivan quasi.
“Dimmi,–dimmi dunque il tuo nome?”
Soggiunse mastro Spaghi,–ravviando le chiome
Alla bella fanciulla.–“Dimmi dunque, chi sei?”
* * * * *
–“Son orfana. Bambina–padre e madre perdei.
“Eppure per molt’anni–sono stata felice!
“Son bella; ho il sangue ardente;–faccio la meretrice.
“Gli uomini li sopporto–se son vecchi o cattivi;
“Cerco i baci di quelli–che son belli e giulivi.
“Non ho fatto mai male–a nessuno! Giammai
“(Pria per nulla, per poco–poscia) il piacer negai.
“Eppur tutti, cercando–i miei vezzi procaci,
“M’insultano! Gli insulti–scordo coi nuovi baci!
“Amo le feste, i campi,–l’aria aperta ed i fiori,
“E il vin che rende immemori–e che infonde gli ardori!
“Le donne m’abborriscono!–Io rubo lor gli amanti!…
“E dovunque si balli,–e dovunque si canti,
“Il mio piede non manca,–non manca la mia gola!”
* * * * *
Mastro Spaghi esclamo’:–“Povera figliuola!
* * * * *
–“Un di’ venne a trovarmi–un bruno giovinetto,
“Bello; parlava sempre–con dolcezza ed affetto…
“Nicasio insomma! Tu–sai bene di chi parlo!
“Del condannato….
“Ah!… Diamine!–Ch’egli abbia nome Carlo
“O Nicasio,” interruppe–mastro Spaghi, “giammai.
“A color ch’ho appiccato–il nome domandai!
“Che mi preme del nome–che porta un condannato!”
* * * * *
–“Anch’io feci lo stesso–con color che ho baciato!…..
“Ma a Nicasio l’ho chiesto!–Mai non seppi spiegarmi:
Il perche’ glielo chiesi!–Ei diceva d’amarmi…
Mi piaceva. Era bello!
–Ma poi ne fui noiata….
“Era povero!…
Eppure–egli non m’ha insultata
“Quando gliel dissi!
Pianse;–mi bacio’ il volto e il seno,
“Quasi per ridestarvi–l’amore, e disse: _Almeno_
“_Non odiarmi!_…”
Venia–ogni giorno, recando
“Cibi e fiaschi di vino.
–Io ridevo trincando;
“Ed ei parea tornare–dalla morte alla vita
“Vedendomi gioconda.
–Un di’ esclamai: “_Squisita_
“_Dev’essere una lepre–col vin di Mercatello!_”
Ei rispose: “_Domani–portero’ questo e quello_.”
“_Baje!_…” dissi ridendo,–“_Tu una lepre?… Non sai
“Che soltanto d’Urbania–col Signor ne mangiai?
“Tu portarmi una lepre?–Tu pezzente e meschino?_
–L’indomani egli venne–colla lepre e col vino!..
“Ah!… Io sono un’infame!–Egli aveva rubato!…
“Gli intendenti del Duca–l’han preso e condannato!”
XI.
Ella si copri’ il viso–con entrambe le mani.
* * * * *
La campagna avea un’eco–di gemiti lontani.
Le foglie che stormivano–di fuori, nell’ortaglia,
Parevano il fruscio–d’un abito a gramaglia.
La lampada moriva.
–Mastro Spaghi avea detto
Ravvivandola: “E’ triste!–Povero giovanotto!”
E nell’olio una lagrima–al boia era caduta.
* * * * *
La fiamma scoppiettando–la stilla avea bevuta.
XII.
La fanciulla riprese:
–“Io l’amo! Io l’amo! Io l’amo!
“Io morro’ s’egli muore!–Egli, povero e gramo,
“Mi pago’ piu’ di tutti!–Ei d’amor mi ha arricchita!
“Gli altri mi dan dell’oro!–Egli mi die’ la vita!
“Io lo voglio!… Dovessi–dar fuoco alla borgata!
“Io pretendo di vivere–perche’ mi sento amata!
“Perche’ voglio adorarlo,–e coprirlo di baci!
“Lo comprendi, o carnefice?–Tu mi guardi? Tu taci?”
* * * * *
Ella facea paura.
–Agitava le braccia,
E diceva: “_Lo voglio!_”–con aria di minaccia.
Correva per la stanza.–Abbrancava le grate
Dell’usciuolo del carcere–con mani forsennate,
Gridando: “Spingi! Aiutami!–Aiutami, amor mio!”
* * * * *
Ei mormoro’ di dentro:–“Lea, non perderti!… Addio!”
XIII.
Allora la fanciulla–divenne mansueta
Come un pazzo, cui nota–voce d’amico accheta.
Il suo viso, che l’ira–aveva imporporato
Torno’ pallido.
Il labbro,–qual ferro arroventato,
Resto’ sol di carminio.
–Ivi il sangue soltanto
Affluiva nei giorni–della gioia e del pianto;
Ed un genio, guardando–quelle labbra procaci,
Dovea dir: “Questa donna–e’ nata per i baci.”
* * * * *
Mastro Spaghi, seduto–vicino alla lucerna,
Somigliava alla statua–dell’attenzione eterna.
Il morente lucignolo,–mobile e vaporoso,
Fissava sul suo cranio–un punto luminoso.
* * * * *
Come un rettile, a terra–la fanciulla strisciando,
A lui venne dinanzi;–e, gli stinchi abbracciando
Del vegliardo, gli disse:
–“Tu non l’ucciderai,
“Non e’ vero?… Perdonami–s’io piansi e mi sdegnai…
“Come sei bello!… Parla!–Io non credea davvero
“Che gli uomini che fanno–un simile mestiero
“Avessero una faccia–cosi’ buona, e che pare
“Quella dipinta in chiesa–sul quadro dell’altare!”
XIV.
Mastro Spaghi taceva–fissandola nel viso;
E nei suoi occhi azzurri–vedeva un paradiso.
Un’iride ideale–di memorie e d’amore,
Di dolci desiderii–soffocati nel cuore.
Come in mezzo alla nebbia–gli passava davante
Della perduta sposa–il leggiadro sembiante,
Che gli dicea:
“_Coraggio!–Se tu cedi, io perdono!_”
Poi gli giungea all’orecchio–con argentino suona
Una voce infantile;–quella d’una bambina;
Che vinceva gli accordi–d’un’armonia divina.
* * * * *
Sovra la rozza panca–il vegliardo si scosse.
Avea il pianto negli occhi–e mormoro’:
“Se fosse
“Viva, avrebbe vent’anni–la povera piccina!
“Vorrei diventar cieco–per averla vicina!
“Che sara’ divenuta?–Sara’ dessa felice?
“Forse e’ una gran signora…–Forse una meretrice!
* * * * *
Cosi’ parlava.
Intanto–la dolente fanciulla
Gli abbracciava gli stinchi,–senza comprender nulla.
Alfin surse da terra,–che’ volavano l’ore.
Avea l’occhio velato–da un osceno languore,
Ed additando l’oro–mormoro’ al vecchio:
“Senti:
“Questi sono testoni–tutti nuovi e lucenti…
“Son dieci!… Sono pochi!–Ma se tu mi concedi
“La sua vita, oltre l’oro–che scintillar qui vedi.
“Io ti daro’… me stessa!…–E sono bella!… Guarda!…”
E si slaccio’ le vesti.
–Ei con mano gagliarda,
“Quasi sdegnato, e altrove–guardando, ricompose
Le vesti.
Ella la destra–gli strinse. Vi depose
Un bacio e disse:
“Grazie!–Oh!… Grazie, padre!
* * * * *
Allora,
Nelle braccia serrandola:–“Lontana e’ ancor l’aurora!”
Esclamo’ il vecchio. “Insieme–con voi verro’!.. Mia figlia,
“Si’, mia figlia sarai!”
XV.
–E dalla ferrea griglia
Del carcer, pochi istanti–dopo, uscivan tre ombre.
Le vie del firmamento–eran di nubi sgombre;
La luna era abbagliante–d’ineffabil splendore;
Nicasio e Lea correano–parlandosi d’amore.
Quella luna invitava–a amar, solo a vederla.
La terra era d’argento,–il ciel di madreperla.
E in quell’onda di luce–il triste gruppo avvolto
Pareva un gruppo d’angioli–dal Signore raccolto,
Perche’ nel santo affetto,–che purifica tutto,
Obliasse ogni colpa,–obliasse ogni lutto.
Di mastro Spaghi il cranio–fulgeva in modo strano;
Lo si saria veduto–a tre miglia lontano.
Ei non se ne accorgeva.
–Celiando, il giovinetto
Quel cranio traditore–copri col suo berretto,
E disse:
“Affeddidio!–Questo tuo cranio vuole
“Col suo sfarzo di luce–comprometter tre gole!”
* * * * *
Cosi’ senza spettacolo–rimaser l’indomani
Di Sant’Angelo in Vado–i buoni borghigiani:
E cosi’, nella corsa–facendo invidia al vento,
Sullo scorcio d’aprile,–l’anno milletrecento,
Giungean, per imbarcarsi,–all’adriaca marina
Un carnefice, un ladro–e una bella sgualdrina.
(Ferdinando Fontana)
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