(AD ALBERTO BARBAVARA)
L’Arte morra’!… o La splendida
Arte che amiamo, o Alberto,
Morra’, come ingannevole
Miraggio del deserto!…
Oh! Tu non sai l’angoscia
Che in petto mi fremea
Quando la triste idea
Nel cranio mi guizzo’!
Nata col primo palpito
Dell’umano pensiero,
L’Arte non era in fascie
Quando cantava Omero;
Ma dalle vette olimpich
All’Ellenia stupita
Dicea: “Narro la vita
“D’un’arte che passo’!”
Dal sacro fiume Egizio,
Dal Gange e dal Giordano
Alle colonne d’Ercole
Che chiudean l’oceano,
Errante coi fenicii,
Ape del sen fecondo,
Ella verso’ sul mondo
Il miel di sue virtu’.
E ad Iside e ad Osiride
Eresse monumenti;
E verseggio’ le pagine
Dei vecchi testamenti;
E tocco’ l’arpa a Davide;
E al popol patriarca
Disegno’ l’are e l’arca;
E celebro’ Visnu’.
In Grecia Apelle e Fidia
Le chieser marmi e tele;
Ella insegno’ la linea
Divina a Prassitele,
E a Socrate e a Demostene
La possente parola,
E ad Eschilo la scuola
Delle passioni apri’.
Le mani d’Aristotile
Ne composer la storia;
La chiamo’ Saffo, in lagrime,
Amor; Pericle, gloria;
Inspiro’ l’odi a Pindaro;
Segui’ Alcibiade a festa;
E gaja dalla testa
D’Anacreonte usci’…
Poi trasvolo’, coll’aquile
Delle legioni, a Roma;
Ed intrecciando i lauri
Alla fluente chioma,
Canto’ i trionfi, il sonito
Delle tube guerriere,
Le spoglie e le bandiere
Del Lazio vincitor.
E quando la Repubblica,
L’invincibile atleta,
Sotto il pugno di Cesare
Si sfascio’ come creta,
Ella, che adora il genio,
Nella bellezza avvolto,
Bacio’, plaudente, in volto
L’audace lottator!
E l’adoro’, recandogli
Un impero a tributo;
E, ad eternarlo, complici
Ebbe Tacito e Bruto;
E quando ei cadde, vittima
Di vendetta gloriosa,
Gli suggeri’ la posa
In cui dovea morir.
Sovra il suo corpo esangue
S’abbandono’ piangendo;
E si tempro’ all’incudine
D’uno spasimo orrendo…
Poi surse, e avea nell’occhio
Sguardi cosi’ possenti
Che n’arsero le menti
Nei secoli avvenir,
Ella narro’ a Virgilio
L’egloghe e l’epopee;
Apprese in versi a Orazio
Le proverbiali idee;
E rizzo’ terme e templii,
E circhi e colossei,
E sogghigno’ agli Dei,
Agli auguri, agli altar.
Dai lidi della Nubia
Chiamo’ il pardo e il leone;
Tolse a femminee viscere
Caligola e Nerone;
Rovescio’ il bianco pollice
In faccia ai moribondi,
E chiese se altri mondi
Eran da conquistar!…
Mutati i lauri in pampini.
Nuda dal capo ai piedi,
A mense interminabili
Volle Eterie e Cinedi;
E, briaca, in un’orgia,
Di vino e di deliri,
Cadde dai drappi assiri
Sul pavimento d’or.
Fra i bianchi intercolonnii
Ella era ancor sopita,
Quando un profeta mistico
Venne a chiamarla in vita.
Ei la copri’ col ruvido
Manto, le die’ una croce,
E colla blanda voce
Le favello’ d’amor.
Cosparsa il crin di cenere
Seco a pregar l’addusse;
La conforto’ di massime
Soavi ed inconcusse,
E in mezzo a ignoti popoli,
Quasi selvaggi ancora,
Vestitala da suora,
La chiuse in monaster.
Ella, seguendo l’indole
Di sua mondana vita,
Da preci e da cilicii
Affranta ed intristita,
Per scongiurar la noja
Del chiostro freddo ed ermo,
Tradusse in canto fermo
I timidi pensier.
Indi minio’ una bibbia,
Cesello’ dei rosari,
E ricamo’ in fantastici
Fregi gli scapolari…
La santita’ dell’opere
La rese ardita, e un giorno
A un’asse si fe’ attorno
Con piume e con color,
E disegno’ un’aureola
In mezzo a cui, raggiante,
Pinse il volto mitissimo
Del suo profeta e amante;
E, le pupille in lagrime,
Compunta a divozione,
Disse alle genti buone:
“Questi e’ Nostro Signor!”
Fu la sua voce armonica
Che il nuovo dogma apprese;
Fu per sua man che sursero
E metropoli e chiese;
E dissero i miracoli
Di sue glorie passate,
Le aguglie, le navate,
I poemi e gli altar.
Pur, colle glorie, l’orgia
Fatal non iscordava;
E il giorno che un Pontefice
La volle far sua schiava,
L’Arte, la bella indomita,
Volse le spalle al tristo,
E fea ritorno a Cristo
Per piangere e pregar.
Un’invincibil nausea
Le saliva alla bocca,
Che’ l’andazzo del secolo
La fea torva e barocca;
Eran grottesche immagini
Di frati, angioli e santi
Con manti svolazzanti
E iperbolici pel;
Erano idee rachitiche
Cinte di gonfie vesti;
Sparia la pura linea
Sotto i fregi funesti;
E nei giardini mistici
Della latina scuola
Il puzzo di Lojola
Isterilia gli stel.
E Sanzio, e Michelangelo
Non eran polve ancora
Quand’ella in Francia e in Anglia
Vide la prima aurora;
E, mentre di Giansenio
La pura man guidava,
Fremeva e palpitava
D’Amleto col cantor.
Poscia amo’ i nei, la cipria,
Le satire mordenti;
Chiamo’ gli Enciclopedici
In sale aurate e olenti;
E, per fuggir degli Arcadi
L’inesorabil belo,
Della Germania al Cielo
Cerco’ sorti miglior.
Ma sulla strada un pallido
Giovinetto severo
La soffermo’, dicendole:
“Io mi chiamo Pensiero.
“Il mondo mi perseguita;
“Io gli grido che l’amo;
“Ma son povero e gramo,
“E non mi vuole udir!
“Tu sei leggiadra, e gli uomini
“Aman le cose belle;
“Or ben, di’ lor che il raggio
“Io scrutai delle stelle,
“Che la pena ed il premio
“Impartiro’ a chi tocca;
“Per la tua rosea bocca
“Io mi faro’ capir!…”
L’Arte e il Pensier si amarono.
Ella porse al Pensiero
Le gioje che sollevano;
Egli le apprese il vero.
Ma l’Arte, esperta e provvida,
Reco’ al novello tetto
Di cortigiana il letto,
Di monaca il pudor.
Dall’ideal connubio
(Non piu’ Minerva strana
Nata da stolto cranio,
Ne’ isterica cristiana,
Ma dolce e melanconica,
E d’austera parvenza)
Nacque una figlia–o Scienza
Tu palpitasti allor!
E, gigante, fra gli uomini
Gia’ il tuo nome risuona!
Ma corre ancora il popolo
Alla tua madre buona,
E la sua voce armonica
E i suoi racconti adora,
E ride e freme e plora,
Udendoli narrar.
E l’Arte narra i dubbi,
Che ne assedian qui in terra,
E i miti, e i sogni, e i simboli,
E la pace, e la guerra;
Parla di re e di popoli,
D’amorose leggende,
E, dai palagi, scende
Al rozzo casolar.
Poscia veggendo, trepida,
Che dei tempi passati
La monotona storia
Ha i cerebri annojati,
Sferza colla commedia
Le goffe costumanze,
E scruta nelle stanze
Gli intrighi ed i mister.
E, risalendo ai limpidi
Fonti della natura,
Ci canta in un Idillio
Creato e creatura,
E insegna all’occhio l’ultima
Gradazione di verde,
Che da lontan si perde
In profumo leggier.
L’Arte e’ la candid’avola
Che tesse le sue fole;
E noi, che ancor siam pargoli,
Amiam le sue parole;
Ma, fatti adulti, i popoli
La chiameran ciarliera,
Ed alla figlia austera
Rivolgeranno il pie’!…
E cercheran l’oceano
Del fiume antico uggiati;
E scruteran dai vertici
I cieli sconfinati;
E chiederanno i fascini,
Che il genio oggi dispensa,
Alla natura immensa,
Che tutto chiude in se’.
Forse tu sola, o Musica,
Astrazion dell’idea.
Vivrai, dell’arti l’ultima
E piu’ perfetta Dea!
L’altre morran!… Le statue
(Simulacri pallenti
Delle belta’ viventi)
Cadranno infrante al suol;
E voi, riflesso inutile
Di cio’ che esiste, o tele,
Voi copriran la polvere,
L’oblio, le ragnatele!
O libri, al fuoco!… Briciole
Della filosofia!…
Ogni fisonomia
E’ un libro aperto al sol!
Alberto, ho il ciglio in lagrime
Penso a quel di’ fatale!
Alla luce novissima
Della scienza ideale!
All’orrenda catastrofe
Della tragedia trista!
Penso all’ultimo artista
Che quel giorno vivra’!
Ei della madre suggere
Vorra’ l’esausto petto,
E rabbioso e famelico
Lo dira’ maledetto;
E forse, per resistere
Un’ora all’ardua pugna,
Lo graffiera’ coll’ugna
E il sangue ne berra’!
(Ferdinando Fontana)
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